In questo mondo e in quest’epoca sempre più dominata dalla tecnica e dalla volontà di dominio inconsapevole di un’umanità sempre più chiusa in se stessa in forme autoreferenziali, tornare a parlare di natura può sembrare quasi ironico: un passatempo da intellettuali che cercano attraverso il concetto di ripensare qualcosa che è decisamente perduto e dissolto nella presa violenta di una manualità che si estende fino ai limiti del manipolabile. Tutto è manipolabile – e la natura, come disse Nietzsche – ha oramai gettato la chiave proprio perché la presa di cui siamo capaci è talmente efficace da non lasciare più niente al caso. Ma è davvero così? Non c’è forse margine per il pensiero di orientarsi ad una meditazione in cui i fili segreti di una natura naturans non tornino a far sentire i loro effetti nelle forme di un nascondimento evocativo e pur sempre presente, oltre l’apparente volontà di dominio di cui ci illudiamo di essere capaci. Il potere naturante della natura effettivamente si fa sempre sentire pur sempre nell’assenza di una presenza che rimane al di là di ogni presa possibile e che si riverbera oltre i limiti di un possesso che ci vuole sempre stranieri in casa propria. La natura che abitiamo è infatti sorprendentemente viva oltre il rumore di fondo delle nostre esistenze sempre più tecnicizzate e ricrea continuamente la possibilità di un dialogo evocativo che non si lascia mai prendere nella rete delle nostre “conoscenze”. Forse oggi più che mai è necessario restituire la natura al suo statuto di evento in un orizzonte in cui l’accadere e il lasciar essere possano tornare ad essere il luogo di manifestazione di una mondità inclusiva in cui l’appartenere e l’abbandonare non siano avvertiti più come alternative ma piuttosto come coappartenenti ad uno sguardo d’insieme in cui il gesto dell’aprire la mano non sia visto come una debolezza ma come l’autentica forza del nostro essere in relazione col mondo medesimo.

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